Autore

Alberto Guggino

Pensare oltre la pandemia

Giorgio Parena

Ho letto con interesse il testo “Back to the Future – 44 idee per la nuova normalità”, pubblicato dal sito Be Unsocial il 12 aprile scorso. Ho ritenuto opportuno (per me in primis) svolgere queste riflessioni a caldo rispetto ai modelli culturali che, pur confusamente, si vanno delineando. 

In generale anticipo subito che le questioni toccate nei 44 interventi sono, a dir poco, molto importanti, ma non ho individuato, dal mio punto di vista, risposte all’altezza. 

Premetto alcune considerazioni:

  • Ho forti dubbi che si possa collegare tout cour l’epidemia ai cambiamenti ambientali o ad un modello di sviluppo, deprecabile fin che si vuole, ma non imputabile di fenomeni verificatisi in forme anche molto più tragiche e virulente in altre epoche. 
  • Sono del tutto scettico sul fatto che “nulla sarà più come prima” o (tanto peggio) che “andrà tutto bene”.

Sbarazzato comunque il campo da possibili equivoci, mi inoltro nelle questioni “di fondo”.
Non ho trovato nei testi alcun riferimento a una serie di problematiche sociali, economiche e culturali, che, per la mia formazione ottocentesca, restano vitali. Esempi:

  1. Non c’è quasi accenno a dinamiche di classe ed alla spaventosa regressione verificatasi negli ultimi 40 anni nei rapporti di lavoro e nella distribuzione del reddito. Questo sia all’interno delle cosiddette società più avanzate, sia nel rapporto tra le nazioni o i continenti.
    Possiamo pensare scenari futuri a prescindere da tali insopportabili ingiustizie?
  2. Non vi sono riferimenti a quello che, personalmente, considero il problema più drammatico del nostro tempo e del futuro: la sovrappopolazione che costringe ad una stress da sfruttamento di risorse superiore alle potenzialità naturali (cambiare stile di vita e modello produttivo non costituisce una risposta sufficiente); consiglio in proposito di leggere gli scritti di uno dei più grandi ambientalisti vissuti nella nostra regione: Bruno Peyronel (es.: Tra natura e società, ed Pro Natura, 1993 !).
    Le megalopoli (in tutto il mondo ed in ogni paese, indipendentemente dal sistema politico ed istituzionale) sono ambienti invivibili, quanto di più artificiale e lontano dalla natura si possa immaginare.
  3. In generale mi pare di cogliere nella filosofia che sottende ai 44 interventi un’impostazione vagamente positivistica (questa sì ottocentesca), quasi completamente acritica rispetto agli assetti strutturali, impregnata di pragmatismo anglosassone, superficiale ed incapace di offrire risposte proporzionate alla profondità delle problematiche. Alcuni esempi:
    – un piccolo segnale/spia: c’è una stomachevole (per me) proliferazione di terminologia inglese, acronimi ed altre amenità, che sostanziano la mia sensazione di sudditanza ad un modello che non ci è mai appartenuto;
    – sul terreno che mi è più familiare dell’educazione, traspira una fiducia immotivata nella tecnologia e in sistemi e dinamiche interpersonali meccanicistiche e direttamente mediate, se non gestite, dalle macchine. Queste, a qualunque categoria appartengano, sono solo mezzi e in quanto tali non apportano alcun beneficio, dipende da chi le maneggia.
    Tra Dewey e Socrate per me non vi sono dubbi nella scelta. Pensare a processi educativi a prescindere da dinamiche interpersonali è puerile e molto pericoloso.
    Qui in realtà il discorso sarebbe molto più complesso ed articolato e dovrebbe tener conto di innumerevoli fattori dalle implicazioni culturali, politiche, ideologiche…a partire da considerazioni del genere:
    la scuola è un’istituzione, è uno spazio di socialità, una comunità integrata; sono scuola anche gli spazi edilizi, le aule, i laboratori, gli arredi, i cortili, le palestre, sono scuola i docenti, gli operatori, il personale di segreteria… La scuola è un segmento dello stato, è pubblica, è istituzionale. Educazione è anche rapportarsi alla scuola in tutte le sue componenti, fenomenologie e dinamiche; anche quelle negative sono un’opportunità educativa: aver a che fare con un pessimo insegnante è un’esperienza educativa importante come altre: mette  in moto processi interpersonali, richiede l’elaborazione di strumenti di difesa individuale e collettiva, l’attivazione di iniziative, la convocazione di organi gestionali, dibattiti, prese di posizione, votazioni, stesura di relazioni.
    Non c’è nulla di più patetico di un genitore che attribuisce al docente la responsabilità di un fallimento scolastico ed educativo. Potrei continuare per altre decine di pagine a descrivere cos’è una scuola, ma qui mi fermo ribadendo soltanto un concetto che ritenevo lapalissiano: senza scuola, intesa in tutte le sue articolazioni, non c’è educazione, può esserci istruzione, trasmissione di nozioni (operazione inutile), addestramento.
  4.  Attraverso i più sofisticati sistemi cibernetici futuribili possono passare contenuti primitivi, rozzi e totalmente inadeguati; basta vedere con quale disinvoltura si impossessino dei social, in tutte le loro forme e potenzialità, organizzazioni, associazioni, circoli e conventicole ascientifiche, di impianto culturale medioevale (nel senso negativo del termine), senza parlare dei religiosi, in tutte le loro configurazioni. I primi a servirsi con sistematicità di tali strumentazioni sono stati movimenti parareligiosi, come i “Dianetics”. Oggi anche il papa e gli imam se ne servono quotidianamente.
    Sia chiaro che non intendo affatto sminuire le potenzialità positive della tecnologia, ma è necessario maneggiarla con cura (come un esplosivo) e non attribuirle, con un pragmatismo alla buona, facoltà che di per se stessa non ha.
  5.  A introdurre innovazioni significative e definitive nell’assetto socio/economico non sono mai state spinte etico-morali, ma necessità materiali impellenti. Ad esempio volgendoci al nostro futuro più prossimo, sono convinto che il crollo del prezzo del petrolio e la prescrizione del distanziamento si tradurranno in un forte aumento del traffico automobilistico privato, mentre stati, società petrolifere, speculatori vari faranno incetta di grezzo a basso costo, che poi naturalmente qualcuno consumerà, passata la buriana.
  6.  Il lavoro da casa sul computer sembrerebbe uno dei futuri rivoluzionari eventi, ma è anche l’ultimo gradino nella scala dell’individualizzazione, della scomparsa (voluta e programmata) di una dimensione collettiva, organizzata sindacalmente in consigli; è il trionfo della parcellizzazione nei rapporti di lavoro, la scomparsa definitiva di una solidarietà di classe, che cresceva, maturava e si traduceva in elaborazione politica all’interno della fabbrica, nel posto di lavoro. Non è un caso che oggi la solidarietà torni a declinarsi su parametri obsoleti, quelli della pietà, del paternalismo, del volontariato, antecedenti addirittura alle società di mutuo soccorso. Un modello del nostro tempo può essere un giovane miliardario stralunato, che finanzia con le bricciole dei suoi capitali la ricerca di un vaccino…Nessuno si chiede come sia stato possibile che uno stato cosiddetto democratico gli abbia permesso un tale accumulo, nessuno suggerisce di usare, non la sua elemosina, ma il suo intero capitale per fare ricerca e creare un’assistenza sanitaria degna di questo nome per tutti, in tutti i paesi. Ai nostri giovani si propone un contributo  di qualche centinaio di euro, essendo senza lavoro, ma ci si guarda bene dal rivendicare un nuovo diritto del lavoro, attività formative e lavorative regolamentate e protette da forme ricattatorie che negli anni 70 avremmo considerato superate per sempre. 
  7. La vera innovazione in un mondo produttivo ormai completamente monopolizzato da sistemi cibernetici ed automatici, consisterà nel riconoscere la positività di liberare l’uomo dagli aspetti schiavizzanti, degradanti e alienanti del lavoro, nell’offrirgli la possibilità di realizzarsi secondo le proprie doti, qualità ed interessi, ma il primo risolutivo passo da compiere, per uscire da una dimensione feudale, sarà ridefinire i rapporti di lavoro ed i criteri di suddivisione della ricchezza prodotta.
    È chiaro ed evidente che per lavorare tutti occorrerà lavorare meno, ridurre la produzione a vantaggio della vivibilità e della qualità, socializzare i profitti e le responsabilità delle scelte. Chi parla di innovazione, progresso, modernità e futuro, ma chiede più produttività, più ore di lavoro, età più avanzata per il pensionamento rappresenta la vera forza di reazione retrograda del nostro tempo.
  8.  Sia nello specifico delle istituzioni educative, che più in generale nei rapporti sociali e culturali, ritengo prioritario distinguere i mezzi dai fini: imparare l’inglese (o un’altra lingua), acquisire familiarità con gli strumenti ed i processi cibernetici, disporre della tecnologia più avanzata e saperla padroneggiare: sono tutti elementi che rientrano nel campo della strumentazione (didattica, lavorativa, etc.), ma nulla hanno a che vedere con la formazione dell’uomo, con l’educazione.
    Coltivare lo sviluppo intellettivo dell’uomo oggi, come ieri e come per il futuro, significa fornirlo di strumenti critici, di autosufficienza valutativa, di capacità di orientarsi di fronte al nuovo (intelligenza), sapendo definire esattamente le proprie coordinate, la propria collocazione, il valore ed il significato della propria azione, il ruolo in rapporto con gli altri e con l’ambiente in tutte le sue declinazioni.

  Il virus ci costringe a riflettere, a riconsiderare, a ridefinire le nostre certezze, ci offre l’occasione per registrare le nostre antenne percettive, ma di per se stesso, come la conoscenza tecnologica, non ci offre risposte o soluzioni; saremo sempre noi (quelli di prima e quelli di domani) a dover cercare, con la nostra intelligenza razionale, la via migliore o almeno la meno peggio.